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Avete ragione, se leggendo il titolo siete rimasti interdetti la colpa non è vostra.
Mi rendo conto sia difficile mettere in relazione un nevrotico condensato di sangue e nichilismo con il capolavoro di Miyazaki, dove tradizioni, spiriti e luoghi incantati accompagnano il viaggio di un’ adolescente dalla faccia pulita.
Ci sono tre punti cardine però che muovono il sottotesto di entrambe le narrazioni, facilmente individuabili con le parole: CONSUMISMO, IDENTITA’ e LIMINALITA’.
Partiamo da quest’ultima sia perché ci permette di ripercorrere i binari di quest’analisi sia perché è un termine con cui pochi hanno dimestichezza.

STAZIONE 1: LIMINANZA.

“deriva dal latino Liman ovvero “soglia”, si definisce liminale un fenomeno che è al livello della soglia di percezione e coscienza”

Mi sono imbattuto in questa parola mentre preparavo l’analisi della Città Incantata, la mia ricerca era improntata sui riti di passaggio, identificando il film di Miyazaki come una delle poche poesie visive in grado di raccontare quel delicato momento di passaggio che è l’adolescenza.
Questa parola ho scoperto però assumere un ruolo decisivo in termini antropologici dove si riferisce specificatamente alla fase di transizione o rito di passaggio.
L’ esempio più famoso di questa liminalità è appunto l’adolescenza, quel grande limbo in cui galleggiano due io che non trovano (più o ancora) continuità.
La città incantata è costruita visivamente attraverso spazi in cui questa situazione di transizione è dominante, un fitto sottotesto di scale, tunnel, ponti, ascensori, per arrivare al famoso treno sull’acqua.

 

In Fight Club la sospensione e il rito di passaggio sono altrettanto percepibili, la dimensione onirica e colorata dello Studio Ghibli si scioglie nel grigiore pallido e le tonalità malsane tra il verdastro e l’azzurrino che accompagnano il protagonista.
L’insonnia è il limbo del personaggio di Norton, la caverna ghiacciata quella di Marla, il T-Group quel luogo di sospensione tra vita e morte.

 

Immagino che tutto questo sia ancora troppo poco per convincervi dei punti di contatto tra le due opere, così rimettiamoci in viaggio.

STAZIONE 2: IDENTITA’.

Il tema dell’identità è quello che gioca il ruolo essenziale in entrambi i film, non a caso nella città incantata vi sono continui e chiari riferimenti come personaggi trasformati (i genitori divenuti maiali), eroi senza memoria del passato (Aku) e ovviamente il fatto che il nome rubato a Chihiro sia il suo unico lasciapassare per tornare al mondo reale .
Se quest’ultimo aspetto l’ho sempre interpretato come l’importanza di riuscire a crescere rimanendo fedeli a se stessi e non lasciarsi condizionare dagli eventi esterni, il personaggio veramente straordinario da questo punto di vista è Kaonaschi, meglio conosciuto in Italia come il “Senza Volto”.
Il senza volto è privo di una propria identità, non ha voce ne personalità, sfrutta solo il suo oro per comprare le attenzioni di chi è disposto a vendersi fino a farsi letteralmente divorare.

Miyazaki, come supposto da alcuni critici ha confermato che il personaggio del senza volto rappresenta il Giappone moderno, un essere privo di identità e costantemente affamato.
Uno stato senza identità è uno stato che ha dimenticato le tradizioni, che ha perso la sua voce limitandosi a doppiare le parole di altri.
La bulimia cronica, l’arraffare incessante e il voler diventare qualcun altro cercano di compensare una mancanza spirituale che non può però essere trovata in nessun bene materiale.
Miyazaki raccontando il percorso di crescita di una bambina ci sta chiaramente dicendo che l’unico modo per colmare questa sensazione di vuoto è smettere di alimentarla.
Su questo torneremo tra qualche riga, nel frattempo vediamo come questo tema veniva affrontato nel film di Fincher.

“Tu non sei il tuo lavoro. Non sei la quantità di soldi che hai in banca; non sei la macchina che guidi né il contenuto del tuo portafogli. Non sei i tuoi vestiti di marca. Sei la canticchiante e danzante merda del mondo.”

Tyler non ci sta dicendo chi siamo, ma punto deciso il dito contro ciò che non ci definisce, tutte quelle inutili cose, quei “beni” che alimentano il vuoto a cui fa riferimento Miyazaki.
Sul perché il tema del sé sia dominante e di come la scissione dell’Io si manifesti in Fight Club credo non sia necessario spendere nemmeno una sola parola.

STAZIONE 3: CONSUMISMO.

A questo punto in preda ad un deliro febbrile di chi ha capito che i pezzettini di pane lasciati lungo la strada portano davvero ad una destinazione ho trascorso un paio di ore a googlare informazioni sul vitale tema dell’ identità e di come venisse percepito diversamente prima dei nostri anni.
Nell’era vittoriana, quando Freud e la psicoanalisi spopolavano quanto le instagram stories oggi, il sé era percepito come “una forza indisciplinata repressa e contenuta dalla società civile”.
Dopo i 2 conflitti mondiali, l’esorbitante incremento dell’industrializzazione e l’ urbanizzazione incontrollata si convertì in isolamento sociale.
Per sopperire a questo nuovo problema ci voleva una nuova soluzione ed “il consumismo come stile di vita” divenne il nuovo sé.
Io sono ciò che compro, sono ciò che ho (il senza volto).

Le pubblicità ci hanno indotto a credere che acquistare prodotti migliorasse il nostro status sociale e ci conferisse una personalità definita.
Il dictat era scoprire chi siamo attraverso i nostri acquisti.
Traducendolo in Palahniukese:

“La pubblicità ci fa inseguire le macchine ed i vestiti, fare lavori che odiamo per comprare cazzate che non ci servono.
Siamo i figli di mezzo della storia…. La nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita.”

Tornando a noi e al nostro viaggio, abbiamo due film che si muovono verso epiloghi opposti, mostrandosi visivamente agli antipodi ma che affondano le radici dei loro conflitti nello stesso terreno: “transizione, identità perduta, consumismo”.
I passeggeri del treno su cui sale Chihiro sono ombre indistinguibili, le stesse “ombre lobotomizzate” o “schiavi dai colletti bianchi” cui fa rifermento Tyler Durden.

La differenza che recide ogni cordone ombelicale tra le due opere coincide nella speranza; masticata e risputata da Fincher in un trionfo di nichilismo, sbocciata e rinvigorita grazie al coraggio di Chihiro nella Città Incantata.

CAPOLINEA.
Sono passati 10 anni dall’uscita del capolavoro Ghibli, 20 da Fight Club, e mentre cerco di capire dove mi porterà questo articolo (che da premessa doveva affrontare il ruolo della donna nelle opere di Miyazaki) ho iniziato a chiedermi cosa avrebbero raccontato oggi questi due film.
La crisi d’identità sembra stia virando verso una nuova e ancor più subdula panacea, quella dell’Io virtuale, dove non sono più “quello che compro” ma “quel filtro che faccio vedere agli altri”.
Vite interessanti, in vacanza, piene di numeri, pollicioni e cuori.
Forse la risposta la possiamo trovare ancora una volta nel Senza Volto, capace di trovare il suo posto solo dopo aver rigurgitato tutte le false identità di cui si appropriava per inseguire uno status idealizzato di felicità che non corrispondeva alla sua.
Non permettere a uno spot, al marketing intelligente, agli influencers, (piaga che trova terreno fertile in consumatori patologici e acritici) di scegliere al posto nostro è il primo passo per non confondere quello che gli altri si aspettano da quello che noi vogliamo.
Accettare di avere una  sola voce  che per forza di cose non potrà mai accontentare tutti è il nuovo rito di passaggio verso una consapevolezza data per scontata troppo a lungo.

E anche se certe volte è più facile guardare fuori dalla finestra aspettando che i grattacieli si sgretolino su se stessi, a 28 anni c’è ancora la voglia di scegliere la speranza di Miyazaki, e il coraggio di cercare la propria strada.
Anche a costo di rinunciare ai Pixies.

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